Era molto atteso il G20 sull’ambiente che si è tenuto la scorsa settimana a Napoli, in particolare la seconda delle due giornate, quella che era dedicata alla ricerca di un accordo internazionale per quanto riguarda le politiche di contrasto al cambiamento climatico. Il G20 dei ministri dell’Ambiente, è bene specificarlo nel momento in cui si fa un bilancio, rappresenta una tappa di un percorso che culminerà a novembre con la Conferenza sul clima, la Cop26.
Sono corrette le osservazioni di chi fa notare che i punti su cui i ministri non hanno trovato l’accordo (2 su 60) sono particolarmente pesanti: si tratta infatti dell’impegno a mantenere il riscaldamento globale, rispetto all’epoca pre – industriale, al di sotto di 1,5 gradi al 2030 (gli accordi di Parigi stabilivano due gradi) e di eliminare il carbone come fonte energetica entro il 2025. Oltre alla Cina si sono opposti India, Brasile, Russia, ed è facile osservare che un accordo sul clima senza il contributo di questi grandi inquinatori (Cina in testa) rischia di rivelarsi largamente inefficace.

La prima buona notizia sta nel fatto che si tratta come detto di una tappa di un percorso che proseguirà con il G20 dei capi di Stato e di governo che si terrà a ottobre, prima della Cop26 sul clima in programma a novembre a Glasgow. Lo stesso ministro Roberto Cingolani, che ha coordinato l’incontro, ha voluto alla fine enfatizzarne i lati positivi, sottolineando che sui due punti ancora in sospeso il dialogo è aperto, ed è politico. Si tratta quindi di insistere su una strada che si deve per forza di cose intendere come tracciata, perché alternative per la sostenibilità dello sviluppo non ne esistono.

A questo proposito può essere utile mettere in luce i risultati positivi conseguiti dal G20 di Napoli, che se confrontati con la rilevanza dei punti rimasti in sospeso possono sembrare irrilevanti ma che, se posti nella prospettiva di un cammino di negoziazione che sta entrando nel vivo, sono importanti. In primo luogo nessun Paese ha rimesso in discussione gli accordi di Parigi del 2015, considerati come un punto di riferimento: circostanza tutt’altro che scontata, vista la difficilissima vita che hanno avuto finora. Poi è stata di fatto eliminata dalla scena la posizione negazionista: il G20 ha infatti riconosciuto la correlazione tra politiche energetiche e clima, e quindi in estrema sintesi la responsabilità diretta dell’uomo rispetto alle catastrofi e agli eventi estremi. Perciò, va da sé, ha messo sul tavolo l’urgenza di lavorare per invertire la tendenza.

La strada per ottenere l’approvazione dei Paesi che sinora si oppongono ai punti cruciali passa quindi per un percorso diplomatico che è tutt’altro che concluso e il cui successo dipende innanzitutto dalla credibilità e dall’efficacia delle azioni di chi lo propone, Unione europea e Stati Uniti in testa. Due soggetti (emerge da questo punto di vista l’importanza della presenza sulla scena di un’amministrazione che in America ha deciso di puntare sulle politiche per il clima) a cui sempre più spetta l’onere di affermare una transizione che dovrà rivelarsi conveniente, dal punto di vista ecologico ma anche economico.

Michele Fina