In queste settimane ha riscosso notevole interesse nel dibattito pubblico e politico la discussione sul percorso di approvazione, da parte delle istituzioni europee, di una direttiva che darebbe un notevole impulso alla riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare del continente. Mentre scrivo il confronto tra i rappresentanti delle forze politiche nel Parlamento europeo è in corso; il 9 febbraio avrà luogo un importante passaggio nella Commissione Industria, prologo di quelli in plenaria e nella Commissione europea. Le perplessità e le proteste sono state espresse da più parti, e le richieste si concentrano, a leggere i resoconti, sull’introduzione di forme più o meno accentuate di flessibilità al momento dell’attuazione della direttiva. Gli esponenti del governo e della maggioranza nel nostro Paese sono stati i più convinti a opporsi. Obbligando agli interventi di riqualificazione si rischia, sostengono, di penalizzare i proprietari di immobili scarsamente performanti dal punto di vista energetico, impoverendoli perché dovrebbero accollarsi interventi onerosi o abbattendo i valori delle case, che sarebbero gravate sul mercato dagli obblighi di ristrutturazione. Credo che la necessità di esplorare tutte le possibilità di miglioramento del testo della direttiva imponga a chi governa il nostro Paese di battersi per trasformarla in un’opportunità, impostando un percorso che parta appunto dal livello europeo, e dalla previsione di specifiche risorse, per arrivare a quello nazionale, con regole adeguate, che punti a un cambiamento della prospettiva: non limitarsi a difendere la trincea della casa di proprietà, qualunque essa sia e in qualsiasi condizione si trovi, quanto piuttosto coltivare l’ambizione di migliorare il rendimento energetico di un patrimonio immobiliare che è tra i più malmessi del continente.

La risposta in realtà esiste già e questo governo sta tentando di smontarla, senza neanche peraltro riuscire ancora a risolvere la grave vicenda dei crediti incagliati: si chiama superbonus e ha già permesso la realizzazione di oltre 350mila interventi su un totale di 14 milioni di abitazioni. Perché non modularlo in modo selettivo riportandolo al 110% per le famiglie a basso reddito e per gli edifici con classe energetica peggiore? Si avrebbero così interventi a valenza anche sociale, visti i risvolti positivi nei costi in bolletta, e la nuova direttiva europea da spauracchio potrebbe diventare un utile strumento al servizio della transizione giusta, quella che promuove l’ambizioso obiettivo di coniugare l’abbattimento delle emissioni con la tutela delle fasce più vulnerabili della popolazione. Si demolirebbero quindi il senso e la matrice delle accuse emerse contro i contenuti della direttiva, a ben vedere gli stessi che dall’alba dei “gilet gialli” sono rivolti contro un certo modo, frettoloso, di elaborare le misure della transizione ecologica, come costi economici e sociali piuttosto che come opportunità.

 

Michele Fina